Leaving Khammam ain’t easy

Ecco la cronaca un po’ sconnessa e tremendamente emotiva delle ultime ventiquattro ore a Khammam.

Sabato 12 novembre

Da sempre gli addii mi affascinano, mi suscitano un misto di attrazione e rigetto. Perchè sono forse i momenti più intensi, più romantici nel senso letterario del termine. Momenti in cui dolore e bellezza si mescolano e ti fanno sentire vivo.

Lasciare un luogo a cui ci si è affezionati, in cui ci si è sentiti a casa, in cui si sono fatti incontri significativi ed esperienze importanti, non è mai facile. Per me non lo è mai stato. E Khammam, e il compound, e Karunagiri sono proprio tutto questo.

Domani mattina presto partiamo per Warangal, dunque questo è il fatidico ultimo giorno. E’ incredibile come, dopo due mesi pieni di tempi morti, nelle ultime ore le cose da fare sembrino moltiplicarsi esponenzialmente ed è chiaro che il tempo non basterà e che bisognerà rinunciare a qualcosa.

Io e Rossella usciamo all’alba per fare una passeggiata nel compound scattando qualche foto. Poi visitiamo con Claudio una cooperativa che rientra nel progetto Arbor e spendiamo il resto della mattinata davanti al tailoring centre aspettando Sister Linda, la sarta, che ci deve consegnare i nostri punjabi. La suora non c’è, ma una delle sue aiutanti, ragazzina che patla pochissimo inglese, ci dice che arriverà “at ten o’clock”. Non ho la forza di farle notare che sono già le dieci e trenta. Semplicemente India. Dopo un’ora e mezza di vana attesa, decidiamo di riprovare nel pomeriggio e ci dirigiamo verso casa per fare le valigie e dare una pulita alla stanza.

Un pranzo veloce, poi comincia la danza dei saluti. La nostra prima tappa è la Bishop’s House. Il vescovo di Khammam, un personaggio che è tutto un programma e che purtroppo non ho ancora avuto modo di ritrarre a dovere, ci dà del materiale per la nostra ricerca e ci regala delle pillole ayurvediche per digerire (!) e due grossi scialli molto indianosi, probabilmente donatigli durante qualche visita nei villaggi.

Non ci aspettavamo nulla del genere, anche perchè non l’abbiamo visto molto in questo mese, e ce ne andiamo intenerite con un arrivederci a Torino – dovrebbe venire a maggio per delle conferenze.

Salutato The Bishop, dovremmo andare in centro a Khammam per stampare alcune foto e incontrare i nostri amci del Diwali, ma loro non ci confermano l’appuntamento per cui decidiamo di rinunciare e copncentrarci sugli addii interni al compound.

Entriamo nel cortile della scuola e Mamatha ci corre incontro insieme ad altre bambine. Restiamo un’oretta a giocare con loro e scattare foto, fino a quando siamo costrette ad andarcene perchè loro loro devono tornare in classe.

La tappa successiva è la casa della congregazione spagnola. Qui comincia la fase davvero struggente. Le nostre amiche ci accolgono con la solita merenda e non vorrebbero più lasciarci andare via. Ogni volta che stiamo per accomiatarci, Sister Gloria se ne esce con un argomento nuovo, un altro dolce che dobbiamo assolutamente assaggiare o delle foto che dobbiamo assolutamente vedere. Alla fine ci scambiamo i contatti e poi ci accompagnano all’uscita. C’è una certa tensione nell’aria e io e Rossella benediciamo l’oscurità mentre ce ne andiamo con gli occhi lucidi.

Alla luce fioca della torcia, rumoreggiando per allontanare eventuali pamu, ci dirigiamo verso la casa di Sister Jane Maria, vicino alla scuola. Lei è felice di vederci e ci ringrazia più volte per la visita, temeva che non avremmo fatto i tempo a salutarci. Siamo noi che dobbiamo ringraziarti e non ce ne saremmo mai andate senza salutarti, penso io.

Prendiamo un altro tè con lei e le sue consorelle, tra cui Sister Mercitta, che ci dice che non possiamo tornare a piedi da sole e al buio fino a Karunagiri perchè è pericolos, oggi era pieno di scimmie e potrebbero attaccarci. Noi ci faremmo volentieri comunque la nostra passeggiata ma lei insiste per chiamarci un risciò.

Quando il risciò arriva dobbiamo fare tutto un po’ in fretta. Sister Jane Maria ha gli occhi lucidi; le giuro che torneremo e mi sforzo per sorridere, ma mi trema un po’ la voce. Vorrei salutare per bene Mamatha ma non c’è tempo, dobbiamo andare. Riesco solo a lasciare a Sister Mercitta una collana di plastica che mi avevano dato a Bonakal, chiedendole di consegnargliela da parte mia.

Accovacciata sul sedile posteriore del risciò che si avventura sobbalzando lungo la strada del compound, sento finalmente esplodere in un pianto copioso e catartico tutta la tensione e la malinconia accumulate durante la giornata. Intuisco che Rossella, seduta accanto a me, non è messa meglio. L’autista ci prenderà per matte…

Entriamo in ufficio singhiozzando, di fronte a Claudio e Luca, piuttosto divertiti, e ad un’attonita Sister Sheeba.

Troviamo la forza, con la complicità di Luca, di preparare un grosso serpente di carta e infilarlo nel letto di Claudio per ripagarlo di tutti gli scherzi sui pamu che ci ha fatto negli ultimi due mesi.

Durante la cena, che condividiamo con Sister Sheeba e le sue consorelle, io e Rossella diamo spettacolo: non riusciamo a trattenere le lacrime, proprio non ci riusciamo, e allora ci viene anche da ridere, e ridiamo e piangiamo insieme, a sprazzi, per tutta la cena, mangiando con le mani e impiastricciandoci di cibo e lacrime, di fronte agli sguardi profondamente perplessi delle suore. Alla fine ci riprendiamo e recuperiamo un po’ di dignità preparando tisana allo zenzero per tutti. Ma il tracollo emotivo è sempre in agguato. Al omento di accomiatarci da Sister Sheeba…

– Sister, will you be here tomorrow morning or shall we say goodbye now?

– I guess it’s better now

– Ooh, Sisteer!, mugolo io, abbracciandola con gli occhi di nuovo umidi

– Ok, ok, I will come also tomorrow, promette Sheeba, un po’ imbarazzata.

E con questa scenetta ce ne andiamo a dormire, stremate dalla giornata intensa e piagnucolosa.

Domenica 13 novembre

La mattina dopo ci alziamo ptesto per partire. Mentre portiamo i bagagli alla macchina, incontriamo lungo il vialetto die suore piuttosto anziane e rimbambite, note per la loro apertura mentale: tanto per dire, una volta hanno sgridato Rossella perchè non va a messa ogni giorno (e due!), un’altra volta hanno visto che Claudio stava leggendo un libro e gli hanno detto che avrebbe dovuto leggere solo il Vangelo.

– Che cos’è questa cosa che porti al collo?

– Una moneta danese

– E perchè?, mi chiedono, con aria perplessa.

– Perchè ho vissuto in Danimarca e… è un ricordo.

– Oh, non è bello!

– Non è… bello? Perchè?

– Dovresti indossare una medaglia di Gesù o di Maria, non una moneta. Non è bello. Perchè non indossi un rosario?

Ora, una persona nel pieno delle sue facoltà psichiche capisce quando è ora di lasciar perdere, quando discutere semplicemente non ha senso. Ma io, prima di colazione e in un momento di fragilità emotiva, non sono proprio nel pieno delle mie facoltà.

– Perchè non sono credente.

Apriti cielo. Seguono il solito interrogatorio su di me e la mia stirpe tutta e il solito tentativo di evangelizzazione in cui viene coinvolta anche Rossella, alla quale le due rintronate raccomandano la mia anima, mentre lei tenta di convincerle che comunque sono “una brava persona” e io mi mangio la lingua cercando una via di fuga. L’ultima cosa che voglio è sprecare i miei ultimi, preziosi momenti a Karunagiri con queste due scocciatrici.

Magicamente mi suona il cellulare. E’ Claudio, che ci stava osservando dalla finestra: “Ho pensato di salvarti il culo, dì che vi stanno chiamando e che dovete andare!”. Mai intervento fu più opportuno. Fuggiamo con le valigie, mentre le due suore mi assicurano che pregheranno tanto perchè trovi la fede e che la prossima volta mi regaleranno una Bibbia che Rossella dovrà aiutarmi a leggere.

L’ultima veloce colazione con la nostra mitica marmellata, e poi ancora un round di saluti. Kumari, la segretaria di Arbor, ci abbraccia commossa. Noi riapriamo i rubinetti, ancora una volta. Mentre cerco la pace interiore osservando il bucolico paesaggio di Karunagiri dalla mia finestra preferita, Maniamma, la cuoca, mi raggiunge. Le lacrime mi rigano il viso.

– Enduku?, perchè?, mi chiede lei.

– Because I’m going away.

Lei mi sorride e mi aggiusta sulle spalle la sciarpa del punjabi. Non parla inglese ma so che ha capito.

Un ultimo abbraccio a Sister Sheeba e ci ritroviamo sedute nel retro della jeep.

Dal vetro posteriore guardo la strada che scorre via veloce, mentre ci lasciamo alla spalle quest’angolo di mondo ripetendo a noi stesse che non è un addio.

Leaving Khammam ain’t easy…

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